Con le misure restrittive conseguenti alla diffusione del Coronavirus sono cambiati i tempi della vita quotidiana, le abitudini, i ritmi e le ritualità. A ciascuno è stato richiesta grande flessibilità, capacità di adattarsi, capacità di fidarsi e affidarsi a decisioni che hanno fortemente modificato le modalità con cui affrontavamo tanti momenti della giornata.
In particolare per i bambini la ritualità è importante perché rende il mondo più prevedibile e quindi dà al piccolo la possibilità di approcciarsi ad esso con modalità più sicure e tranquille.
Un grosso elemento che fornisce struttura nella vita dei bambini e dei ragazzi è la scuola. La scuola è fatta di spazi, tempi ed attività definite e nel susseguirsi cadenzato di tutti questi aspetti si mettono in campo svariate competenze e abilità. Quelle stesse abilità e competenze che la didattica a distanza non può però privilegiare a scapito della relazione educativa.
In questo scenario agli insegnanti è chiesto di essere disponibili, informarsi, reinventarsi, trovare nuove modalità di fare lezione per mantenere vivi impegno e motivazione ad apprendere. Le famiglie devono fronteggiare, oltre al necessario e aumentato coinvolgimento per lo svolgimento dell’attività didattica e l’aiuto nei compiti assegnati, tensioni e ansie che riguardano la salute, il lavoro, la condivisione di luoghi ristretti in cui a volte è faticoso salvaguardare spazi personali.
Diverse mamme mi raccontano la fatica di queste settimane in particolare quando vengono assegnati compiti senza che i bambini abbiano la possibilità di vedere l’insegnante, stare con i compagni, vivere la scuola anche nella dimensione del gioco, della creatività, della socializzazione. Stanno meglio invece bambini e ragazzi aiutati a lavorare insieme, a sentirsi parte di una realtà che vive le medesime loro difficoltà ma che, nella possibilità di partecipare ad un progetto condiviso fatto anche di regole, di spazi e tempi definiti, trova le energie e le risorse fisiche ed emotive per fronteggiare le fatiche. Anche per i più piccoli è importante ricostruire la dimensione della classe per recuperare il senso della scuola in continuità con ciò che è stato e che sarà.
Secondo Bowlby (1988) il neonato viene al mondo dotato di una predisposizione innata a relazionarsi ad altri individui, instaurare con essi dei legami emotivi e mantenerne la vicinanza a scopo protettivo; le competenze che il neonato possiede sarebbero perciò finalizzate all’adattamento proprio e alla sopravvivenza della specie.
La relazione di attaccamento consiste in un legame, duraturo nel tempo e nello spazio, a una persona specifica, a cui ci si rivolge quando ci si sente vulnerabili e bisognosi di protezione; tale relazione inizia a stabilirsi tra il neonato e la persona che più se ne prende cura, non necessariamente la madre biologica, sin dalle prime interazioni, anche se è con l’acquisizione di capacità più specifiche (attorno al nono mese) che il bambino sarà in grado di ricercarne attivamente la vicinanza e il contatto fisico per essere consolato in caso di difficoltà. Bowlby sottolinea come il comportamento di attaccamento diventi molto evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, per attenuarsi quando si ricevono conforto e cure. Ciò è evidente soprattutto nella prima infanzia sebbene possa essere osservato, specialmente nei momenti di emergenza, nel corso di tutta la vita.
L’autore in seguito precisa la differenza che intercorre tra attaccamento e comportamento di attaccamento: mentre, da un lato, l’instaurarsi del legame di attaccamento è reso evidente dal fatto che il bambino desidera ed è fortemente portato a cercare la vicinanza e il contatto con certe persone, ritenute in grado di affrontare il mondo in modo adeguato, in certe specifiche situazioni, dall’altro, i comportamenti di attaccamento sono rappresentati da quelle azioni che si mettono in atto per determinare tale contatto. Così mentre il legame duraturo di attaccamento è instaurato nei confronti di un numero molto limitato di persone, le sue manifestazioni comportamentali possono essere rivolte, in circostanze differenti, nei confronti di diversi individui.
La teoria dell’attaccamento trae origine del lavoro congiunto di John Bowlby e Mary Ainsworth. Mentre da un lato Bowlby ha formulato le linee di base della teoria utilizzando concetti tratti dall’etologia, dalla cibernetica e dalla psicoanalisi, dall’altro Mary Ainsworth ha tentato di tradurre tali principi in dati empirici ampliando la teoria stessa. I suoi due contributi più rilevanti riguardano il concetto di caregiver come base sicura e la spiegazione delle differenze individuali nei rapporti di attaccamento.
John Bowlby ha ipotizzato che a partire dai 18 mesi i bambini siano in grado di costruire dei modelli interni delle rappresentazionidelle esperienze di interazione che nella realtà hanno avuto luogo con la figura che maggiormente si è presa cura di loro dalla nascita.
Ciò è possibile in questa fase dello sviluppo perché, verso la fine del primo anno di vita, si verificano cambiamenti sostanziali quali il raggiungimento della costanza d’oggetto e l’acquisizione della funzione linguistica che coinvolgono così la sfera cognitiva come quella sociale. I bambini, dunque, dalla metà del secondo anno di vita sono in grado di rappresentarsi mentalmente gli eventi e, a partire dalle interazioni ripetute tra essi stessi e la madre, di costruire i Modelli Operativi Interni (IWM) del mondo fisico e sociale.
Gli IWM, deputati ad organizzare a livello conscio ed inconscio le informazioni rilevanti per l’attaccamento, non solo si fondano su vissuti reali ma su quei modelli di interazione e di risposta affettiva che si ripetono nel corso del tempo, infatti essi non riflettono tanto una rappresentazione reale e obiettiva del genitore, quanto piuttosto la storia delle risposte affettive e delle disponibilità del genitore nei confronti delle richieste di sicurezza del bambino. La loro funzione sarebbe quella di essere utilizzati per interpretare gli eventi, fare previsioni sul mondo circostante, valutare nuove situazioni e guidare il comportamento, non solo come filtri passivi dell’esperienza ma come mezzi attraverso cui ricreare attivamente le proprie esperienze relazionali. In base alla propria esperienza i bambini si creano delle aspettative sulle interazioni future con i genitori e con altri individui che guidano le loro interpretazioni e i loro comportamenti, per questo, secondo Ammaniti e Stern, lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenzerà l’organizzazione precoce della personalità e, in modo particolare, il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri.
Il termine “modello” viene utilizzato proprio perché esso riproduce internamente ciò che accade nel mondo esterno reale, mentre “operante” dà l’idea della dinamicità di una rappresentazione che arriva ad operare senza che il soggetto ne sia consapevole, consentendo, di organizzare sia percezioni, memorie e attese nei confronti dell’ambiente, sia il comportamento in maniera coerente con queste aspettative. Dal momento che i Modelli Operanti Interni derivano da esperienze interiorizzate con la figura di attaccamento, la qualità delle cure ricevute nel tempo è di fondamentale importanza per la creazione di modelli di interazione diadica e quindi complementari: una madre, vissuta dal bambino come sensibile, capace di rispondere tempestivamente ai suoi segnali, sintonizzandosi empaticamente sui suoi stati d’animo e sui suoi bisogni, darà luogo ad un attaccamento sicuro e il bambino interiorizzerà una rappresentazione di sé come di un individuo degno di amore e di cure. Inoltre, è proprio in seguito all’interiorizzazione di questi legami che il bambino avrà la possibilità di sentirsi sicuro anche quando la figure familiari non saranno presenti, poiché si verificherà l’attesa fiduciosa del loro ritorno. Ciò influenzerà il senso di autostima del bambino e la sua capacità di affrontare situazioni nuove, complesse e di separazione dalle figure significative. Poiché, parallela all’instaurarsi del legame di attaccamento cresce l’esigenza di conoscere il mondo circostante al fine di comprenderne caratteristiche e potenzialità, soltanto una figura esperita come “Base Sicura”, e cioè mediamente stabile e disponibile all’accoglienza e alla protezione anche in caso di pericolo, ma che interviene attivamente solo quando è chiaramente necessario, darà al bambino la possibilità di sviluppare comportamenti di esplorazione, di socializzazione e di attaccamento in tutta libertà. Ciò accade perché il bambino può permettersi di prestare scarsa attenzione all’attaccamento.
Gli IWM sono stabili o si modificano nel corso dello sviluppo? Secondo Bowlby (1980) la stabilità dei Modelli Operanti Interni è garantita da un lato dal fatto che si sviluppano e “crescono” in un contesto familiare con caratteristiche per lo più stabili, dall’altro che, proprio per lasciare l’individuo libero di sfruttare le proprie risorse ed energie per la comprensione delle novità, essi tendono a divenire gradualmente automatici, al di fuori della coscienza e per questo più resistenti al cambiamento. Come è stato detto in precedenza, la funzione principale dei Modelli Operanti Interni è quella di consentire al bambino di interpretare e pianificare le interazioni con le figure che si prendono cura di lui; per questo la loro rigidità non consentirebbe un adattamento sia alle diverse situazioni di vita sia ai cambiamenti evolutivi.
Sempre nel 1980 è proprio Bowlby a suggerire che la varietà dei pattern di attaccamento può dipendere dal grado di soddisfazione del soggetto in riferimento al pattern stesso. In secondo luogo, non soltanto le esperienze successive vengono costantemente assimilate, ma sono proprio gli schemi interiorizzati dal bambino ad essere continuamente accomodati in relazione alla realtà che lo circonda.
La qualità dei Modelli Interni può dunque essere modificata dalle esperienze che il bambino si trova ad affrontare ma, con il passare degli anni, tende in un certo senso a riproporsi nella modalità con cui l’adulto si relaziona agli altri e gestisce i propri rapporti, ricreando aspetti della propria storia passata.
Un ulteriore contributo in questo ambito è fornito dal lavoro di Patricia Crittenden la quale ha proposto un approccio dinamico-maturativo allo sviluppo delle relazioni di attaccamento nell’arco della vita. “Secondo questo punto di vista, la maturazione è in interazione dinamica con l’esperienza, creando le potenzialità di cambiamenti nella qualità di attaccamento che avvengono in modo regolare attraverso delle riorganizzazioni. Si ipotizza che i cambiamenti di configurazione siano particolarmente frequenti in prossimità dei periodi di rapido cambiamento neurologico, cioè nei pressi di cambiamento di stadio evolutivo”. (Crittenden, 1999). L’autrice ipotizza quindi che siano possibili cambiamenti nella qualità di attaccamento, in funzione della nuova comprensione del passato, soprattutto nei diversi momenti che precedono l’età adulta.
In conclusione, Main e Goldwyn (1994) sostengono che, “nonostante il fatto che la maggioranza delle persone possano avere avuto nella prima infanzia esperienze diverse con le diverse figure di attaccamento, e malgrado le possibili variazioni degli stati mentali relativi a tali esperienze nel corso successivo dello sviluppo, nell’età adulta le diverse esperienze e i diversi stati mentali appaiono coagularsi in un unico stato della mente rispetto all’attaccamento primario e sovraordinato” (Dazzi, De Coro, Ortu e Speranza, 1999).